.Vercelli 6 aprile 2020
DIARIO DI BORDO – 5 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)
L’UMANA FRAGILITA’
In queste settimane ci sono state pagine del diario tecniche, pagine emozionali, pagine motivazionali, pagine più ilari e divertenti.
Oggi, caro diario, tento, con tutti i miei limiti, di scalare una montagna.
Tento di scrivere una delle pagine più difficili che abbia scritto sino ad oggi ma credo i tempi siano maturi per addentraci nelle profondità di questo male, sperando che le parole scritte riescano a rendere ciò che nel cuore sento certamente con maggiore chiarezza di quanto sarà possibile esprimere su carta digitale.
E’ un argomento delicato. Toccherà i sentimenti di alcuni, il dolore di altri.
E’ il dolore di chi si ammala all’epoca del COVID.
Anche peggio, il dolore di chi vede un amico, un caro, un parente ammalarsi.
Perché a volte è più difficile guardare una persona amata soffrire che soffrire noi stessi.
E come abbiamo visto ammalarsi di COVID vuol dire avere come compagna di strada la solitudine, il distacco.
E questa è una novità di questi tempi bui. L’impossibilità di stare accanto.
Si lascia il proprio caro nel momento in cui sale in ambulanza o varca le porte del DEA.
Da li in poi i contatti sono a distanza.
Telefonici quando possibile. Anche con i medici che lo seguono.
Questa è la grande barriera contro la quale si infrange la possibilità di mostrare la nostra empatia.
Il senso di frustrazione, l’impotenza può prevalere.
Come si può lasciare una mano tesa verso noi e non poterla afferrare?
La disperazione e l’umana pietà ci porterà a cercare un rifugio.
In questi giorni è capitato diverse volte di ricevere telefonate da amici, conoscenti, pazienti.
Voci angosciate, depresse, sole. Chiedevano conforto, chiedevano aiuto per parenti, amici ricoverati o in procinto di essere ricoverati per COVID.
Chiedevano di avere notizie, chiedevano di intervenire presso i colleghi, chiedevano un occhio di riguardo, un letto, una possibilità.
Ascoltare quei gridi di dolore non è stato e non sarà facile.
Si ascolta e poi si hanno due strade di fronte. La prima è quella della frase di circostanza. Dire che si farà tutto, che si telefonerà al collega DEA o del reparto COVID per sapere, chiedere, per cercare di trovare una sistemazione, un’attenzione particolare. Poi, magari, quella telefonata non la si farà.
La seconda è quella che ho scelto. È dura. Costa fatica e lascia un solco nell’anima. È la scelta di dire dei SI ma anche dei NO, chiaramente, senza giri di parole.
E di spiegare, con il cuore in mano perché tra i SI ci sarà anche qualche NO.
Perché NON si farà una telefonata al collega in determinati orari, perché NON si faranno pressioni, perché si cercherà di raccogliere informazioni (SI) ma senza disturbare.
Non si farà tutto questo perché i colleghi urgentisti (DEA), rianimatori, infettivologi e tutti quelli che girano nei reparti COVID sono da un mese “pancia a terra”.
Sono da un mese incessantemente all’opera su un numero di pazienti che in momenti normali o solo fino ad 3 mesi fa sarebbe stato impensabile poter gestire contemporaneamente. Sono da un mese quasi “reclusi”. Sentono una pressione enorme, una responsabilità quasi opprimente nel riuscire a cavalcare un’onda mai vista. E lo stanno facendo (bene!) a costo di grandi sacrifici.
A questi colleghi non possiamo e non dobbiamo mettere pressione. Devono poter lavorare con lucidità e quella professionalità che consenta loro di curare tutti (e tutti in egual maniera) senza distinzioni di sesso, ceto o amicizie.
L’unico modo che ho per aiutare questi professionisti è di creare, insieme ad altri colleghi, attorno a loro uno spazio di confort, una sfera protettiva.
Ecco perché, con grande sacrificio, dirò ancora, a volte, dei NO.
Farò tutto questo sperando che dall’altra parte si capisca il senso di quei NO.
E sapendo che le molte volte in cui dirò SI sarà un SI sincero, mai di opportunità.
Farò questo sperando che si capisca che quei NO non sono mancanza di empatia. Al contrario.
Chi lascia momentaneamente un proprio caro in ospedale in area COVID sappia che lo sta affidando a equipe di intensivisti, pneumologi, infettivologi, internisti che hanno costruito una squadra che lavora senza sosta. Una squadra che parla, si confronta, sceglie strategie in comune e si riunisce ogni giorno.
Non possono fare miracoli, non potranno salvare tutti. Salveranno e guariranno molti però, e lo stanno facendo in silenzio, dietro alla loro tute, lontano dal rumore delle strade e dei telefoni che squillano incessantemente.
Li lascerò e i lasceremo lavorare, ci affideremo a loro.
Argomento difficile, il dolore.
Alla nascita dovrebbero darci un libretto di istruzioni su come gestirlo. Invece dobbiamo imparare strada facendo e forse senza mai imparare del tutto.
Domani, prometto caro diario, sarà una pagina leggera, per compensare. La pagina di oggi, per ovvi motivi, è stata più pesante delle altre.
5 di Aprile …. Fidiamoci e affidiamoci con il cuore in mano …..
COPYRIGHT E FOTO: dott. Sergio Maccio’
DIARIO DI BORDO – 5 Aprile a.d.c. (Anno del Corona)
L’UMANA FRAGILITA’
In queste settimane ci sono state pagine del diario tecniche, pagine emozionali, pagine motivazionali, pagine più ilari e divertenti.
Oggi, caro diario, tento, con tutti i miei limiti, di scalare una montagna.
Tento di scrivere una delle pagine più difficili che abbia scritto sino ad oggi ma credo i tempi siano maturi per addentraci nelle profondità di questo male, sperando che le parole scritte riescano a rendere ciò che nel cuore sento certamente con maggiore chiarezza di quanto sarà possibile esprimere su carta digitale.
E’ un argomento delicato. Toccherà i sentimenti di alcuni, il dolore di altri.
E’ il dolore di chi si ammala all’epoca del COVID.
Anche peggio, il dolore di chi vede un amico, un caro, un parente ammalarsi.
Perché a volte è più difficile guardare una persona amata soffrire che soffrire noi stessi.
E come abbiamo visto ammalarsi di COVID vuol dire avere come compagna di strada la solitudine, il distacco.
E questa è una novità di questi tempi bui. L’impossibilità di stare accanto.
Si lascia il proprio caro nel momento in cui sale in ambulanza o varca le porte del DEA.
Da li in poi i contatti sono a distanza.
Telefonici quando possibile. Anche con i medici che lo seguono.
Questa è la grande barriera contro la quale si infrange la possibilità di mostrare la nostra empatia.
Il senso di frustrazione, l’impotenza può prevalere.
Come si può lasciare una mano tesa verso noi e non poterla afferrare?
La disperazione e l’umana pietà ci porterà a cercare un rifugio.
In questi giorni è capitato diverse volte di ricevere telefonate da amici, conoscenti, pazienti.
Voci angosciate, depresse, sole. Chiedevano conforto, chiedevano aiuto per parenti, amici ricoverati o in procinto di essere ricoverati per COVID.
Chiedevano di avere notizie, chiedevano di intervenire presso i colleghi, chiedevano un occhio di riguardo, un letto, una possibilità.
Ascoltare quei gridi di dolore non è stato e non sarà facile.
Si ascolta e poi si hanno due strade di fronte. La prima è quella della frase di circostanza. Dire che si farà tutto, che si telefonerà al collega DEA o del reparto COVID per sapere, chiedere, per cercare di trovare una sistemazione, un’attenzione particolare. Poi, magari, quella telefonata non la si farà.
La seconda è quella che ho scelto. È dura. Costa fatica e lascia un solco nell’anima. È la scelta di dire dei SI ma anche dei NO, chiaramente, senza giri di parole.
E di spiegare, con il cuore in mano perché tra i SI ci sarà anche qualche NO.
Perché NON si farà una telefonata al collega in determinati orari, perché NON si faranno pressioni, perché si cercherà di raccogliere informazioni (SI) ma senza disturbare.
Non si farà tutto questo perché i colleghi urgentisti (DEA), rianimatori, infettivologi e tutti quelli che girano nei reparti COVID sono da un mese “pancia a terra”.
Sono da un mese incessantemente all’opera su un numero di pazienti che in momenti normali o solo fino ad 3 mesi fa sarebbe stato impensabile poter gestire contemporaneamente. Sono da un mese quasi “reclusi”. Sentono una pressione enorme, una responsabilità quasi opprimente nel riuscire a cavalcare un’onda mai vista. E lo stanno facendo (bene!) a costo di grandi sacrifici.
A questi colleghi non possiamo e non dobbiamo mettere pressione. Devono poter lavorare con lucidità e quella professionalità che consenta loro di curare tutti (e tutti in egual maniera) senza distinzioni di sesso, ceto o amicizie.
L’unico modo che ho per aiutare questi professionisti è di creare, insieme ad altri colleghi, attorno a loro uno spazio di confort, una sfera protettiva.
Ecco perché, con grande sacrificio, dirò ancora, a volte, dei NO.
Farò tutto questo sperando che dall’altra parte si capisca il senso di quei NO.
E sapendo che le molte volte in cui dirò SI sarà un SI sincero, mai di opportunità.
Farò questo sperando che si capisca che quei NO non sono mancanza di empatia. Al contrario.
Chi lascia momentaneamente un proprio caro in ospedale in area COVID sappia che lo sta affidando a equipe di intensivisti, pneumologi, infettivologi, internisti che hanno costruito una squadra che lavora senza sosta. Una squadra che parla, si confronta, sceglie strategie in comune e si riunisce ogni giorno.
Non possono fare miracoli, non potranno salvare tutti. Salveranno e guariranno molti però, e lo stanno facendo in silenzio, dietro alla loro tute, lontano dal rumore delle strade e dei telefoni che squillano incessantemente.
Li lascerò e i lasceremo lavorare, ci affideremo a loro.
Argomento difficile, il dolore.
Alla nascita dovrebbero darci un libretto di istruzioni su come gestirlo. Invece dobbiamo imparare strada facendo e forse senza mai imparare del tutto.
Domani, prometto caro diario, sarà una pagina leggera, per compensare. La pagina di oggi, per ovvi motivi, è stata più pesante delle altre.
5 di Aprile …. Fidiamoci e affidiamoci con il cuore in mano …..
COPYRIGHT E FOTO: dott. Sergio Maccio’