Il racconto della giornata del 23 marzo 2020.
Vercelli, 23 marzo 2020
DIARIO DI BORDO: 23 Marzo a.d.c. (Anno Del Corona)
TOCCARE O NON TOCCARE, QUESTO E’ IL PROBLEMA
Diciamocelo, chi non ha creduto per buona parte della vita di essere “immortale”?
Se non vivessimo nella finta presunzione di immortalità non faremmo progetti a lungo termine, non investiremmo anni della nostra vita per divenire qualcuno o per costruirci una carriera.
Poi un giorno si incontra la malattia.
Le prime esperienza da bambino cominciano a insegnarti la fragilità, a piccole dosi.
Poi i fortunati crescono con piccoli inciampi e nulla più.
Sino a quando, se così vuole il destino, si incontra la malattia, quella seria.
Le malattie cardiovascolari, le malattie oncologiche. Sono le nostre paure più grandi.
Quante volte abbiamo sentito scrivere o dire “è morto di un brutto male?”. Come se esistessero mali buoni.
Ma queste malattie, sino a quando siamo sani, le vediamo sempre con occhi di altri.
Proviamo compassione, tristezza, ma è altro, è qualcosa fuori da noi.
Non ci spaventa il contatto con il malato.
Possiamo stringere la mano ad un paziente oncologico, rincuorarlo, abbracciarlo, incrociare gli occhi da vicino.
Possiamo sederci vicino ad un paziente appena ripreso da un infarto esteso e raccontargli che il bicchiere è mezzo pieno, raccontarlo a lui che in quel momento vede solo quello mezzo vuoto. Perché il bicchiere mezzo pieno è la vita che ti da una seconda chance.
Possiamo fare tutto questo vicino a lui, fare nostre le sue lacrime e lui può vedere i nostri occhi inumidirsi.
Si chiama EMPATIA.
Questo il coronavirus ci ha portato via, la possibilità di mostrare la nostra empatia.
Perché questa volta la malattia del nostro paziente può divenire, con estrema facilità, anche la nostra.
Il paziente COVID è isolato. Isolato dal mondo, dai parenti, dagli affetti, da noi.
Per vederlo, per comunicare dobbiamo frapporre tra noi e lui doppi camici, doppi guanti, occhiali, visiera, maschera con filtro. E stare lontani.
Può essere un nonno che ha un nipotino appena nato.
Può essere un padre il cui figlio sta per laurearsi, sposarsi.
Può essere una madre che attende di divenire nonna.
Così i carrelli a fianco dei letti si riempiono di disegnini dei nipoti, lettere dei figli, pensieri del consorte.
Si torna a comunicare con la carta. Dove le condizioni cliniche lo consentono e il paziente ha un Device giusto si può tentare una videochat ma sono casi rari.
E comunque manca il contatto.
Qualche giorno fa sono passato in area COVID a trovare un carissimo amico. Sono rimasto sulla porta a parlare con lui. Ho dovuto mantenere le distanze proprio nel momento in cui invece due esseri umani vorrebbero potersi avvicinare. E’ la cosa che mi ha fatto più male.
Ricordiamocelo quando sarà finito tutto, non dimentichiamolo.
Quando potremo sfilare camici, riporre visiere e dimenticarci delle famigerate maschere ffp2/ffp3 ricordiamoci di quanto il contatto ci sia mancato oggi e di quanto sia importante nel processo di cura e del “prendersi cura”.
Ora rimetto i guanti, vorrei mica qualcuno mi toccasse…
23 di Marzo … guardiamoci negli occhi …
Copyright testo e fotografia dott. Sergio Maccio'
DIARIO DI BORDO: 23 Marzo a.d.c. (Anno Del Corona)
TOCCARE O NON TOCCARE, QUESTO E’ IL PROBLEMA
Diciamocelo, chi non ha creduto per buona parte della vita di essere “immortale”?
Se non vivessimo nella finta presunzione di immortalità non faremmo progetti a lungo termine, non investiremmo anni della nostra vita per divenire qualcuno o per costruirci una carriera.
Poi un giorno si incontra la malattia.
Le prime esperienza da bambino cominciano a insegnarti la fragilità, a piccole dosi.
Poi i fortunati crescono con piccoli inciampi e nulla più.
Sino a quando, se così vuole il destino, si incontra la malattia, quella seria.
Le malattie cardiovascolari, le malattie oncologiche. Sono le nostre paure più grandi.
Quante volte abbiamo sentito scrivere o dire “è morto di un brutto male?”. Come se esistessero mali buoni.
Ma queste malattie, sino a quando siamo sani, le vediamo sempre con occhi di altri.
Proviamo compassione, tristezza, ma è altro, è qualcosa fuori da noi.
Non ci spaventa il contatto con il malato.
Possiamo stringere la mano ad un paziente oncologico, rincuorarlo, abbracciarlo, incrociare gli occhi da vicino.
Possiamo sederci vicino ad un paziente appena ripreso da un infarto esteso e raccontargli che il bicchiere è mezzo pieno, raccontarlo a lui che in quel momento vede solo quello mezzo vuoto. Perché il bicchiere mezzo pieno è la vita che ti da una seconda chance.
Possiamo fare tutto questo vicino a lui, fare nostre le sue lacrime e lui può vedere i nostri occhi inumidirsi.
Si chiama EMPATIA.
Questo il coronavirus ci ha portato via, la possibilità di mostrare la nostra empatia.
Perché questa volta la malattia del nostro paziente può divenire, con estrema facilità, anche la nostra.
Il paziente COVID è isolato. Isolato dal mondo, dai parenti, dagli affetti, da noi.
Per vederlo, per comunicare dobbiamo frapporre tra noi e lui doppi camici, doppi guanti, occhiali, visiera, maschera con filtro. E stare lontani.
Può essere un nonno che ha un nipotino appena nato.
Può essere un padre il cui figlio sta per laurearsi, sposarsi.
Può essere una madre che attende di divenire nonna.
Così i carrelli a fianco dei letti si riempiono di disegnini dei nipoti, lettere dei figli, pensieri del consorte.
Si torna a comunicare con la carta. Dove le condizioni cliniche lo consentono e il paziente ha un Device giusto si può tentare una videochat ma sono casi rari.
E comunque manca il contatto.
Qualche giorno fa sono passato in area COVID a trovare un carissimo amico. Sono rimasto sulla porta a parlare con lui. Ho dovuto mantenere le distanze proprio nel momento in cui invece due esseri umani vorrebbero potersi avvicinare. E’ la cosa che mi ha fatto più male.
Ricordiamocelo quando sarà finito tutto, non dimentichiamolo.
Quando potremo sfilare camici, riporre visiere e dimenticarci delle famigerate maschere ffp2/ffp3 ricordiamoci di quanto il contatto ci sia mancato oggi e di quanto sia importante nel processo di cura e del “prendersi cura”.
Ora rimetto i guanti, vorrei mica qualcuno mi toccasse…
23 di Marzo … guardiamoci negli occhi …
Copyright testo e fotografia dott. Sergio Maccio'