La qualità di vita per un disabile motuleso.
Si sente parlare molto spesso di “qualità di vita”, in televisione, sui giornali, al bar con gli amici, per strada.
Qualcuno che mi conosce, vedendomi invalido in carrozzina, lo ha chiesto anche a me, forse per una sana provocazione, che possa aiutare a sviluppare meglio il concetto di qualità. A me, in quanto disabile in carrozzina, con il 100% di invalidità, però sempre positivo: una contraddizione disarmante, quasi fastidiosa.
Merita una analisi più approfondita. Iniziamo a definire cos’è la disabilità.
Sul dizionario Devoto Oli si parla di “privazione della facoltà o possibilità di svolgere determinate funzioni”. Alcuni anni fa, ad una conferenza cui fui chiamato come relatore, il prof. Cappelletti, vicepresidente della Treccani, espresse lo stesso concetto, per cui togliendosi gli occhiali si sentiva disabile visivo.
Per La OMS, il termine disabilità si riferisce alla capacità della persona di espletare autonomamente (anche se con ausili) le attività fondamentali della vita quotidiana. In Italia, si riconduce alla legge 104 del 1992 mentre il termine invalidità riporta al diritto di percepire le previdenze sociali con benefici anche economici, conseguente al danno biologico indipendentemente dalla autonomia dell’individuo e fa riferimento alla legge 118 del 1971. Documento fondamentale in merito è la “Classificazione delle Menomazioni, Disabilità, Handicap” della O.M.S. del 1981.
Chi ne è interessato troverà molti spunti e molti chiarimenti.
Io sono interessato perché convivo con la Sclerosi Multipla da 37 anni. Mi ha lasciato senza l’uso di una gamba, un braccio al 50%, un occhio ridotto al 10%, perdita di memoria ed altri limiti. Uso il termine “limiti” per definire la disabilità: serve a circoscrivere la perdita di funzioni.
Per fortuna, assistenza sanitaria di ottimo livello, voglia di vivere, interessi sempre attivi, affetti familiari e di amicizia, forse un po' di sana incoscienza, mi portano a far “finta di essere sano” come diceva decenni fa il grande amico Giorgio Gaber. Questo nonostante la carrozzina, indispensabile per chi non cammina, che per me è solo un mezzo di trasporto senza altre connotazioni negative. Anzi, vivendo da “ruotante”, come dicevo l’altro grande amico Franco Bomprezzi (La contea dei ruotanti) di cui noi tutti piangiamo la mancanza, chi ha il coraggio di impedirmi di partecipare a qualsivoglia attività cui voglio prendere parte?
Forse sono troppo aggressivo, ma a 64 anni vorrei ancora VIVERE, non solo sopravvivere.
C’è una differenza sostanziale tra chi è nato disabile e chi lo è diventato nel tempo. Io posso parlare solo per chi lo è diventato, perché al 100% lo sono diventato dopo 23 anni di vita estremamente dinamica e interessante.
Un lavoro da manager commerciale molto intenso e soddisfacente, in viaggio perenne in giro nel mondo. Fino al rischio di incidente fatale in Venezuela, con conseguente cessazione del lavoro attivo sul campo e riduzione di impegni fisici.
Fortunatamente solo fisici visto che quelli intellettuali possono permettermi una vita attiva e soddisfacente, a condizione di seguire delle sane regole di vita (la cui trattazione seguirà altre strade). Tutto ciò per far capire cosa intendo io come qualità di vita. Venendo da famiglia di avvocati e commercialisti, ho analizzato quanto previsto dalle regolamentazioni ufficiali e dalle consuetudini quando si tratta di occuparsi di una persona con disabilità (definizione ufficiale ONU/OMS 2006): l’approccio tradizionale è tipicamente assistenziale: vede il disabile come un demente psichico incapace di qualsivoglia raziocinio logico che ha bisogno di aiuto per qualsiasi attività anche individuale.
All’altro estremo si trova la bella ragazza trentenne laureata in filosofia non vedente dalla nascita, che ho conosciuto personalmente al corso “disability and over” e che a causa del suo evidente limite non trovava lavoro. Entrambi questi estremi possono essere recuperati con degli approcci personalizzati, con la finalità di dar loro una attività lavorativa che possa soddisfare certe aspettative, che non saranno solo economiche con una pensione o altro contributo statale bensì psicosociali, con la possibilità di esprimere e far valere le capacità e le conoscenze acquisite con lo studio e con un vivere in mezzo alla gente.
Per riuscirci bisogna lavorare su molteplici fronti: anzitutto quello famigliare. In 15 anni nel campo specifico, ho conosciuto troppe mamme iperprotettive che impedivano al figlio con disabilità di uscire per strada, incontrare gli altri, VIVERE nel vero senso della parola. E’ forse il campo più delicato e difficile che richiederà enormi sforzi di pazienza, comprensione, solidarietà. (L’antitesi è la disabilità fonte di reddito, con famiglia di quattro persone che vivevano tutte grazie alla pensione della figlia tetraplegica.)
Subito dopo, segue il campo sociale, altrettanto delicato e difficile, dove servirà un enorme lavoro di comunicazione su tanti livelli e con tanti media.
Ne consegue quello politico e amministrativo, che serviranno per confermare e consolidare certe scelte e certe soluzioni proposte.
In tutti questi campi, sarà fondamentale l’esempio di personaggi più o meno noti che accettino di mettersi in gioco pubblicamente senza remore o vergogne. Vuol dire farsi vedere con tutte le nostre limitazioni o storpiaggini senza timore di essere criticati perché “brutti”.
Siamo tutti convinti a parole che l’aspetto estetico sia meno importante del messaggio di positività che noi siamo capaci di lanciare dall’alto delle nostre carrozzine. Ma dimostrarlo al di là delle parole, spesso è più problematico, ci vogliono facce di bronzo che non tutti hanno.
Altro concetto fondamentale è che tutte le disabilità sono sorelle, nel senso che non esiste chi è più disabile o vale di più di altri in quanto disabile: tutto dipende dal livello di limitazioni conseguenti alla causa di disabilità o meglio, il valore piò essere giudicato sulla capacità del singolo individuo di ovviare alle limitazioni funzionali. Ricordo sempre con affetto il professore della Bocconi che mi spingeva la carrozzina chiedendomi, di indicargli il percorso in quanto ipovedente, pur avendo nemmeno 70 anni, a causa della retinite pigmentosa.
Altrettanto, non ha alcuna importanza la causa che ha provocato le limitazioni, ciò che conta veramente è l’analisi serena e obiettiva di queste limitazioni, con il successivo studio delle soluzioni che consentano una qualità di vita normale. Sapendo che le difficoltà più pesanti da vincere sono quelle psicosociali che spesso derivano unicamente dall’ignoranza della gente comune del cosa fare per “gestire un uomo in carrozzina”: potrei raccontare situazioni al limite del comico se non fossero di tragico riconoscimento di incapacità alquanto imbarazzanti: come dire che non basta lo spirito di solidarietà, né il cuore in mano di milanese memoria, ci vuole un approccio più aperto e disponibile.
Dove servirebbe ascoltare le persone con disabilità per farsi dire quale sarebbe il vero aiuto di cui si ha bisogno. Diventa difficile ovviamente per certe disabilità che non riescono a comunicare.
Sarà indispensabile l’intervento di terzi, anzitutto i parenti, cui si dovrà far capire come gestire positivamente la disabilità famigliare. Con tutto questo, si delineano gli ambiti su cui intervenire: famiglia, scuola, ricreazioni, centri sportivi, parrocchie, partiti e scuole politiche, tutto il mondo in cui un individuo VIVE socialmente.
Copyright Aldo Arrigoni