Vercelli 3 maggio 2020
DIARIO DI BORDO – 2 Maggio a.d.c. (Anno del Corona)
L’ETICA DEL DOLORE
Ieri mi sono imbattuto in una lettera pubblicata su un giornale piemontese scritta da una sedicente operatrice sanitaria. Ovviamente l’identità non veniva svelata dal giornale.
L’operatrice (presentata come infermiera) racconta con termini duri, anche scurrili e assolutamente impietosi, la condizione e la gestione di malati COVID negli ospedali.
Una lettera carica di rancore e diretta contro chi pensa, dal 4 Maggio in poi, di tornare alla libertà.
Capisco lo stato d’animo in cui è stata scritta.
È lo stato d’animo di chi ha combattuto sin dall’inizio un nemico sconosciuto, soverchiante le forze a disposizione per combatterlo.
È lo stato d’animo di chi non è stato protetto, di chi ha avuto paura di contagiarsi e ammalarsi.
È lo stato d’animo di chi non ha più avuto ferie, riposi. Di chi si è visto cancellare con un colpo di spugna tutti i diritti contrattuali in termini di orario lavorativo e recuperi.
Ma.
Ma prima di scrivere, che sia un post o a maggior ragione una lettera ad un giornale, dobbiamo avere ben chiara la responsabilità che abbiamo.
Siamo operatori sanitari, le nostre parole hanno un peso non indifferente.
Chi ha scritto questa lettera con toni duri, quasi minacciosi, ha dimenticato per strada etica e deontologia.
Perché un discorso era avvertire e informare sui rischi di ammalarsi di COVID, un’altra è terrorizzare chi dovesse correre il rischio di ammalarsi. Un terrore che potrebbe portare qualcuno a ritardare cure e/o ospedalizzazione.
Una lettera irricevibile per i toni ed il messaggio, di dolore senza speranza, che porta con sé.
Su queste pagine tutti noi della compagnia del diario stiamo faticosamente cercando da mesi di raccontare e condividere la storia del COVID ma sempre, spero, con una prospettiva costruttiva, una luce anche nei momenti più bui.
Visto il numero di condivisioni altissimo dell’articolo in questione voglio affrontarne con voi alcuni passi e ridimensionarne la drammatica visione.
Lo faccio perché chi si ammalerà non dovrà avere terrore dell’ospedale, dovrà al contrario sapere che non dimenticheremo mai l’umanità e che per quanto dura saremo li a combattere con voi.
Ecco alcuni passaggi della famosa lettera:
<< i pazienti arrivano, vengono trasferiti dal letto alla barella, spogliati come vermi, vengono bucati sulle braccia se già non hanno un accesso venoso funzionante (raramente, per fortuna, perché ci pensano già in pronto soccorso), gli vengono applicati degli elettrodi sul petto, una specie di pinza su un dito, il saturimetro, e attaccati a un monitor che suona con una spia fastidiosa ogni volta che qualcosa non va>>.
Vedete come le cose si possono raccontare in diversi modi? Era necessario parlare di “vermi”? o descrivere il semplice accesso venoso (quello che fate per un banale prelievo) come se fosse un atto di estrema invasività?
<<… il monitor suona … se il loro corpo sta andando a p*****e >> (gli asterischi li ho messi io). Un operatore sanitario NON può esprimersi così.
<<A proposito di parti basse… i pazienti vengono cateterizzati … perché medici e infermieri hanno bisogno di sapere esattamente quanta pipì fanno e non si possono preoccupare (ANCHE) del fatto che la loro vescica esploda letteralmente da un momento all’altro >> nuovamente un modo di esprimersi volgare e non giustificabile.
Nell’articolo, non lo riporto ma potete leggerlo direttamente, viene fatta una descrizione terroristica del casco c-PAP che si usa per le ventilazioni con affermazioni peraltro scorrette e imprecise.
Volendo proseguire la lettera è un elenco interminabile di torture che nemmeno Tomas de Torquemada (primo grande inquisitore spagnolo) avrebbe potuto immaginare.
Noi medici e infermieri dobbiamo essere guide, dobbiamo essere lo sguardo amico, dobbiamo essere il faro nel buio.
Dobbiamo saperci fare carico del peso di queste giornate e non riversarlo, come fa la presunta collega infermiera, su chi è fuori.
La differenza tra ESSERE medico o infermiere e FARE il medico o l’infermiere è tutta qui.
Probabilmente chi ha scritto questa lettera dovrebbe fare un lavoro introspettivo e chiedersi se ha fatto la scelta giusta nella vita quando ha deciso di dedicarsi alla cura del prossimo.
Lo dico senza acredine ma con la convinzione che etica e deontologia non possano essere dimenticate anche (ma forse soprattutto) in questi momenti difficili.
Anche medici e infermieri sono essere umani, hanno diritto a “crollare” sotto il peso di questo tsunami. Esistono ormai in quasi tutte le aziende gruppi di supporto.
Si chiede aiuto ai colleghi (noi a Vercelli ci siamo organizzati sin dall’inizio), si parla, ci si sfoga tra di noi, magari si scrive un diario. Ma mai e poi mai dobbiamo permettere al nostro dolore e fatica di riversarsi su chi è fuori e non sta soffrendo meno di noi. Su chi ha perso il lavoro, su chi rischia di non aprire più un negozio, un ristorante, di non aver più soldi per mantenere una famiglia.
Allora andiamo tutti avanti insieme.
Leggete pure l’articolo in questione ma sappiate che non è così.
Che abbiamo saputo mantenere, seppur a caro prezzo, umanità. Che seppur mascherati i nostri occhi parlano. Che ci sono colleghi nelle aree COVID che si prendono cura dell’aspetto psicologico (penso ad esempio al lavoro della collega Ferraris Silvia che affianca i tanti colleghi in prima linea).
Se doveste entrare in ospedale non sarete soli. Ci siamo noi. E se sarà dura (perché non posso raccontare la favola che sarà una passeggiata), sarà qualcosa che affronteremo insieme.
Lo può raccontare e testimoniare (come già accaduto anche su queste pagine) chi nella compagnia del diario ha già vissuto questa brutta esperienza.
2 di Maggio …. Forse l’etica è una scienza scomparsa dal mondo intero. Non fa niente, dovremo inventarla un’altra volta … (Jorge Louis Borges).
COPYRIGHT E FOTO…Dott. Sergio Macciò